
MagGio 2025

Il PuntoSVIMEZ – maggio 2025
Cronistoria della nuova guerra dei dazi
In quello che è stato battezzato Liberation Day, il 2 Aprile 2025 il Presidente Trump ha annunciato i) tariffe universali al 10% su tutte le importazioni degli Stati Uniti dal resto del mondo e ii) un pacchetto di “tariffe reciproche”, che prevede un’aliquota differenziata a seconda del paese di provenienza della merce e del suo avanzo commerciale nei confronti degli Stati Uniti. A completare la svolta nelle politiche commerciali di Washington, negli ultimi mesi sono stati introdotti iii) dazi al 25% sull’import di auto, acciaio e alluminio ai sensi della sezione 232 del Trade Expansion Act del 1962, che consente al Presidente di imporre tariffe o altre misure di regolamentazione delle importazioni che mettano in pericolo la sicurezza nazionale.
L’ordine esecutivo che introduce queste misure include un elenco di merci esentate dalle tariffe, alcune delle quali in modo permanente, per la loro rilevanza strategica per gli interessi statunitensi (prodotti energetici), mentre altre dovrebbero essere oggetto di misure specifiche, come nel caso di prodotti semiconduttori e prodotti farmaceutici.
La determinazione del Presidente Trump a proseguire sulla strada dei dazi è stata subito messa alla prova dalla reazione estremamente negativa dei mercati finanziari. Il mercato azionario statunitense ha fatto registrare la sua peggiore settimana dal Covid dopo l’annuncio. Per tranquillizzare i mercati ed avviare negoziati bilaterali con ciascun paese, il 9 Aprile l’amministrazione Trump ha dunque proclamato una proroga di 90 giorni sul pacchetto di tariffe “reciproche”, con l’eccezione della Cina. Se i mercati hanno inizialmente festeggiato la tregua, le tensioni sulle principali piazze finanziarie sono tornate a manifestarsi proprio a causa delle contromisure adottate dalla Cina, che hanno dato vita a una escalation nella guerra commerciale tra Washington e Pechino: dopo l’introduzione di una tariffa al 10% all’inizio di febbraio e un ulteriore incremento al 20% a Marzo, la tariffa “reciproca” al 34% applicata dagli Stati Uniti alle merci cinesi con il “Liberation Day” ha portato l’aliquota complessiva al 54%. La ritorsione cinese non si è fatta attendere, con l’introduzione di una tariffa al 34% che ha innescato a sua volta una reazione americana e una spirale di ritorsioni reciproche culminata in un’aliquota record del 145% sull’import cinese da parte statunitense e del 125% della Cina sulle merci americane.
A questo punto (11 Aprile), le due principali economie mondiali – legate da un interscambio commerciale di circa 580 miliardi di dollari che coinvolge filiere produttive strategiche – erano sull’orlo di un disaccoppiamento totale, con conseguenze difficilmente prevedibili sull’economia globale. Le esportazioni cinesi verso gli Stati Uniti nel mese di Aprile sono crollate (-21% su base annua), ma sono cresciute nel complesso (+8%) grazie all’aumento delle spedizioni verso Sud-Est asiatico (+20%) e Unione Europea (+8%). Nel giro di un mese, tuttavia, è stato raggiunto un primo accordo, che ha comportato una riduzione sostanziale delle tariffe reciprocamente applicate di 115 punti percentuali, portando la tariffa statunitense su merci cinesi al 30% e quella cinese al 10%, oltre al rilassamento delle misure restrittive sulle esportazioni strategiche.
In questo contesto di rapidi cambiamenti di scenario, l’Unione Europea ha inizialmente risposto ai dazi statunitensi su acciaio e alluminio con l’adozione di contromisure – le stesse adottate nel 2018 e poi sospese – su merci statunitensi per un valore complessivo di 26 miliardi di euro, per poi metterle in pausa una volta che gli Stati Uniti hanno annunciato la proroga di 90 giorni sulle tariffe “reciproche” per dare spazio ai negoziati. Qualora i negoziati con Washington dovessero fallire, la Commissione UE ha inoltre proposto una lista di merci statunitensi del valore complessivo di 95 miliardi di euro che potrebbero essere sottoposte ai dazi, in risposta alle tariffe “reciproche” e ai dazi statunitensi sull’Auto. Allo stesso tempo, è stato stilato un elenco di merci europee potenzialmente soggette a vincoli sulle esportazioni verso gli States e sarà presentato un ricorso presso l’Organizzazione Mondiale del Commercio (OMC/WTO) in merito alle tariffe “reciproche” e sulle automobili introdotte dagli Stati Uniti.
La svolta strategica degli Stati Uniti
Le notizie circa la tregua sulle tariffe reciproche e gli accordi raggiunti da Washington con la Cina e Regno Unito sono state accolte con grande entusiasmo dall’Unione Europea. La speranza a Bruxelles è di poter raggiungere un accordo con Washington che elimini la tariffa reciproca al 20% cui gli Stati membri sarebbero soggetti, che avrebbe un impatto negativo e significativo sul Pil e, più in generale, metterebbe in discussione il modello di crescita orientato alle esportazioni del Vecchio continente.
Molti analisti europei hanno interpretato la proroga sulle tariffe reciproche come un vero e proprio dietrofront di Trump indotto dalla reazione dei mercati. Questa lettura non tiene tuttavia conto del fatto che la tariffa universale al 10% rimane in vigore – e non sembra messa in discussione dal negoziato con l’Unione Europea – e che il punto di caduta del negoziato con la Cina implica in ogni caso dazi generalizzati al 30% sulla principale economia industriale del mondo e una messa in discussione definitiva del sistema multilaterale incentrato sull’OMC.
Soprattutto in Italia, è diffusa l’idea secondo cui le nuove politiche commerciali statunitensi sarebbero il portato esclusivo dell’agenda del Presidente Trump. Per capire quanto questa prospettiva sia potenzialmente dannosa per l’Europa, è sufficiente inquadrare le politiche commerciali statunitensi degli ultimi anni, dalla prima guerra commerciale con la Cina del 2018-2019, all’allargamento delle misure tariffarie da parte dell’amministrazione Biden nei confronti di Pechino: una tariffa del 100% sui veicoli elettrici, del 25% sulle batterie agli ioni di litio e del 50% sulle celle fotovoltaiche e sui semiconduttori prodotti in Cina. La svolta nelle politiche commerciali statunitensi è iniziata da tempo ed è condivisa – con sfumature differenziate – dalle diverse amministrazioni, poiché rientra in una strategia nazionale di lungo periodo che risponde ai mutamenti del quadro geoeconomico globale – sfida egemonica cinese in primis – e all’insostenibilità degli squilibri macroeconomici globali degli ultimi decenni nel nuovo contesto, a partire dal twin deficit americano che fa da contraltare al mercantilismo europeo e cinese.
Se questa lettura è corretta, la svolta degli Stati Uniti ha radici strutturali e non è destinata a rientrare completamente. L’Italia e l’Europa hanno dunque la necessità imprescindibile di comprendere le cause e gli obiettivi di tale svolta da parte di Washington, così come gli strumenti che la seconda amministrazione Trump potrebbe utilizzare per realizzarla, per determinare le risposte politiche più consone, come sostenuto recentemente anche dal Presidente Mattarella. Un primo spunto di riflessione può essere tracciato a partire dal recente articolo di Stephen Miran, l’attuale Chair del Council of Economic Advisers dell’amministrazione Trump – A User’s Guide to Restructuring the Global Trading System.
La complessità dei temi trattati va al di là delle finalità di questi brevi appunti, ma alcuni punti fermi circa la prospettiva statunitense possono essere tracciati:
- Gli Stati Uniti perseguono una trasformazione profonda delle relazioni commerciali internazionali e del sistema finanziario globale, al fine di tutelare l’egemonia statunitense nel quadro della rapida ascesa economica e tecnologica cinese;
- Il conflitto con la Cina potrebbe intensificarsi e l’industria statunitense dovrà essere rafforzata e messa nelle condizioni di produrre beni intermedi e finali strategici, per i quali sono necessarie politiche di sostituzione delle importazioni che potrebbero avere implicazioni rilevanti sulle attuali catene di fornitura globali;
- Le politiche tariffarie – insieme alle politiche valutarie – sono uno degli strumenti a disposizione per ridurre gli squilibri della bilancia dei pagamenti e rilocalizzare le filiere produttive strategiche e saranno sviluppate in stretta connessione ai criteri della sicurezza nazionale e della difesa;
- Questi stravolgimenti del sistema economico internazionale potrebbero generare incertezza nei mercati finanziari e nei partner commerciali, che dovrà essere contenuta attraverso misure specifiche e, laddove possibile, sfruttata a beneficio degli Stati Uniti, specie nei negoziati bilaterali.
In un quadro così complesso è difficile fare previsioni senza essere smentiti, ma si può ipotizzare che i criteri economici che hanno guidato la globalizzazione e le scelte produttive delle multinazionali negli ultimi decenni saranno sempre più affiancati e smussati dai principi della sicurezza nazionale e del confronto tecnologico tra le due superpotenze. Se l’Unione Europea vuole evitare di essere un vaso di terracotta stretta tra vasi di ferro, è necessaria una presa di coscienza e una messa in discussione del modello di crescita e di governance, a partire dal Patto di Stabilità e Crescita.
L’esposizione del Mezzogiorno e le filiere più a rischio
Nel breve periodo, l’introduzione dei dazi rappresenta un rischio concreto per le maggiori economie europee. Se ci focalizziamo sull’impatto diretto, gli Stati Uniti rappresentano un mercato di sbocco rilevante e difficilmente sostituibile per l’Italia – 62,9 miliardi di euro nel 2024, pari al 10,3% dell’export italiano – e per il Mezzogiorno, con 6,3 miliardi (9,7% del totale della Macroarea).
Nell’ultimo quindicennio (2010-2024), le esportazioni verso gli Stati Uniti sono più che triplicate in termini nominali (+210%) e l’avanzo commerciale – 37 miliardi nel 2024 – è più che quadruplicato (+304%) nonostante il balzo delle importazioni guidate dagli energetici dopo il 2022, fornendo un apporto significativo alla crescita del Pil.
Figura 1. Export, Import e saldo commerciale Italia-USA (2010-2024), miliardi di euro

Fonte: Elaborazioni Svimez su dati Istat
L’esposizione dell’Italia risulta eterogenea a livello territoriale e settoriale. Con oltre 34 miliardi, Lombardia (13,7 miliardi), Emilia-Romagna e Toscana (entrambe intorno ai 10 miliardi) sono responsabili di oltre il 55% dell’export italiano verso Washington nel 2024 (Tabella 1), mentre tra le Regioni del Sud primeggiano Campania (1,9 miliardi), Abruzzo (1,6 miliardi) e Sicilia (1 miliardo). Sebbene l’export sia relativamente meno rilevante per le economie regionali del Mezzogiorno, negli ultimi anni la domanda estera ha costituito una importante leva di crescita e sviluppo per il Sud.
Tabella 1. Esportazioni verso gli Stati Uniti per Regione (2024), milioni di euro e percentuali regionali

Fonte: Elaborazioni Svimez su dati Istat
A livello settoriale, la Meccanica (13 miliardi) rappresenta oltre un quinto dell’export nazionale (Tabella 2) e risulta il settore più esposto al nuovo protezionismo americano, nel Mezzogiorno i comparti più legati al mercato statunitense sono l’Agroindustria, il Farmaceutico e il Petrolchimico, con il 58% dell’export complessivo della Macroarea.
Tabella 2. Export verso gli Stati Uniti per Macrosettore (2024), milioni di euro e percentuali su totali di area

Fonte: Elaborazioni Svimez su dati Istat
Le misure introdotte da Trump, tuttavia, colpiscono filiere e comparti in maniera asimmetrica. Prodotti energetici, semiconduttori e farmaceutici sono – almeno per il momento – esentati dai dazi universali al 10%, mentre Automotive e Siderurgia subiscono tariffe più elevate (25%). Alcuni comparti strategici del Mezzogiorno – Petrolchimico, Farmaceutico e Apparecchiature elettriche – dovrebbero per il momento essere al riparo, sebbene gli annunci statunitensi su potenziali tariffe maggiorate su farmaceutica e semiconduttori destino grandi preoccupazioni.
Viceversa, il calo più significativo dell’export meridionale potrebbe interessare Agroindustria, Meccanica ed Automotive. Come noto, l’Agroindustria è una filiera d’eccellenza per tutto il Mezzogiorno. In particolare, questa rappresenta oltre il 30% dell’export per Sardegna e Molise e oltre il 40% per Basilicata (44%), Campania (48%) e Calabria (48%). Qualora non si riuscisse a raggiungere un accordo per eliminare la tariffa reciproca al 20%, l’impatto sull’export sarebbe particolarmente negativo in termini assoluti per la Campania (a rischio 164 milioni).
Abruzzo e, soprattutto, Puglia rischiano di essere le regioni più colpite dai dazi per quanto riguarda la Meccanica, comparto il cui export ammonta rispettivamente a oltre 140 milioni e quasi 350 milioni nel 2024. La battaglia di Trump per rilocalizzare la filiera dell’Auto negli States rischia invece di avere ripercussioni negative soprattutto per quanto riguarda lo stabilimento di Pomigliano in Campania (a repentaglio spedizioni per 55 milioni).
Conclusioni
Valutare le implicazioni della svolta statunitense continua a essere complesso per diverse ragioni: i) non abbiamo certezze sul punto di caduta dei negoziati tra Stati Uniti e Unione Europea, che stabilirà l’aliquota “reciproca” applicata agli Stati membri; ii) ciascun prodotto esportato è caratterizzato da una diversa elasticità di prezzo e una capacità differenziata di assorbire i dazi applicati; iii) oltre al variegato sistema tariffario, dall’insediamento di Trump il dollaro ha subito una svalutazione sull’euro intorno all’8% che – se dovesse stabilizzarsi – contribuirebbe a indebolire l’orientamento all’export di numerosi settori europei.
Nel breve periodo, è indispensabile che l’Unione Europea agisca per minimizzare la tariffa reciproca statunitense, senza cedere sugli standard di sicurezza alimentare, mentre il governo dovrebbe impegnarsi a tutela delle imprese esportatrici per ottenere esenzioni specifiche sui prodotti di eccellenza. Nel Mezzogiorno, la filiera agroalimentare dovrà essere adeguatamente tutelata.
Il mutato contesto internazionale impone anche una riflessione più ampia a livello nazionale ed europeo sulla necessità di rimodulare il modello di crescita export-oriented, prendendo atto della minore spinta propulsiva che la domanda estera potrebbe apportare nei prossimi anni, rendendo indispensabile un rilancio della domanda interna. Un cambio di paradigma complesso, che richiede una diversa distribuzione del reddito e una crescita significativa dei salari reali, ma necessario per evitare il ritorno a una crescita asfittica, che rischierebbe di mettere definitivamente in crisi il progetto di integrazione europea.
Argomenti
Cerca nel sito
Numeri precedenti
